di Flavio Felice, Docente all’Università del Molise e membro del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali
Il 12 giugno del 2012 ci lasciava Elinor Ostrom, una delle politologhe che ha maggiormente contribuito alla teoria politica e al dibattito pubblico, sia nel campo accademico sia in quello politico e sociale, giungendo nel 2009 ad essere insignita del Premio Nobel per l’economia.
Professoressa presso l’Università dell’Indiana, dove dirigeva con il marito il Centro di ricerca di studi e analisi politica «Vincent and Elinor Ostrom», la Ostrom si è occupata della governance dei cosiddetti commons, le risorse comuni, quelle risorse naturali – terre per pascoli, aree ittiche, boschi per legname, acqua per irrigazione dei campi agricoli – o immateriali – come la conoscenza – per cui è molto costoso controllare ed escludere il consumo degli “utilizzatori”. Il problema di queste tipologie di risorse è che sono sovra-sfruttate o comunque la loro cura è trascurata dagli utilizzatori. La ragione sta nel fatto che i soggetti si comportano opportunisticamente considerando la risorsa a cui accedono, senza possibilità di esserne esclusi, una risorsa gratuita, e perciò massimizzano i propri benefici privati, trascurando o collettivizzando i costi; è ciò che Garret Hardin ha descritto con l’espressione “tragedia dei beni comuni”. La soluzione alla tragedia dei commons, prima del contributo della Ostrom e dei suoi studi, era quella di privatizzare le risorse o, in una prospettiva simmetrica, definire un Leviatano per una loro gestione statale.
La Ostrom ha invece dimostrato che all’interno delle comunità possono emergere dal basso regole e istituzioni di non-mercato e neppure riconducibili al governo, in grado di assicurare una gestione efficiente dal punto di vista economico di tali risorse. La Ostrom riporta esempi delle terre comuni nei villaggi giapponesi di Hirano e Nagaike in Giappone, il meccanismo di irrigazione huerta tra Valencia, Murcia e Alicante in Spagna, la comunità di irrigazione zanjera nelle Filippine.
Come ha messo in evidenza l’economista Massimiliano Vatiero, partendo dai contributi teorici di Ronald Coase, di Douglass North e di Oliver Williamson, la Ostrom isola i caratteri principali degli auto-governo locali. Una prima condizione istituzionale alla base del successo di questi meccanismi è la chiarezza del diritto. Le regole oltre a essere chiare, devono essere condivise dalla comunità. Per questo un elemento essenziale dell’auto-governo è la definizione di metodi di decisione democratica, tali da coinvolgere tutti i fruitori della risorsa. Inoltre, i meccanismi di risoluzione dei conflitti devono avere ambiti locali e pubblici, in maniera tale da essere accessibili a tutti i soggetti di una comunità. Accanto a meccanismi di sanzioni progressive, si prevede che si instauri un controllo reciproco tra gli stessi fruitori della risorsa. Ciò ha un duplice effetto: primo, chi è interessato a una gestione corretta della risorsa è anche interessato a svolgere un controllo sulla medesima; secondo, i fruitori sono i soggetti che hanno le maggiori informazioni su come la risorsa possa essere utilizzata in maniera inappropriata dagli altri. Dunque, le regole oltre a essere chiare, condivise e rese effettive da tutti i fruitori, non devono contrastare con livelli superiori di governo.
Dal punto di vista della teoria politica, si tratta di dar vita ad un sistema plurarchico di istituzioni della società civile prossime territorialmente ai problemi che attendono di essere risolti, ovvero, di ripensare l’amministrazione pubblica quale strumento di attuazione dell’ordine giuridico della società piuttosto che mera appendice del potere politico. Un simile approccio ci consente di cogliere un tratto essenziale della cosiddetta «via istituzionale della carità», presentata da Benedetto XVI in Caritas in veritate n. 7, mettendoci al riparo da un’idea di bene comune che si risolve nella pretesa monopolistica della politica, la stessa che vede nello Stato la società politicamente organizzata.
Articolo pubblicato su “L’Osservatore Romano” del 12 giugno 2021